Guglielmo da Vercelli santo
GUGLIELMO da Vercelli, santo
Non si conoscono né la data né il luogo di nascita, né la famiglia da cui G. ebbe origine; tuttavia, poiché le fonti medievali lo designano sempre con il toponimo da Vercelli, si può ragionevolmente ritenere che fosse originario di questa città o del suo territorio. Molto tarde e prive di ogni valore storico sono le attribuzioni di G. a famiglie nobili vercellesi e la congettura che egli sia nato attorno al 1085.
La fonte principale della vita di G. è la Legenda de vita et obitu sancti Guilielmi confessoris et heremitae, contenuta in un manoscritto della prima metà del secolo XIII, scritto in caratteri beneventani, conservato nell’Archivio dell’Abbazia di Montevergine, il cui nucleo centrale fu redatto da un monaco appartenente alla generazione successiva a quella di G., per ordine di Giacomo, abate di S. Salvatore al Goleto nella seconda metà del XII secolo.
Il racconto agiografico mostra G. come penitente volontario, che a quattordici anni decise di abbandonare la famiglia e la città natale per recarsi in pellegrinaggio a San Giacomo di Compostella.
Il suo proposito era di vivere solo a pane e acqua, di dormire sulla nuda terra, di mantenere il silenzio durante le ore notturne come i monaci. Inoltre, durante il viaggio egli si fece cingere con due cerchi di ferro il petto e il ventre, costume tipico dei penitenti coatti, ma pure accettato dai penitenti volontari. Anche la più antica iconografia del santo, inserita nel predetto codice della Legenda, raffigura G. con in mano il bastone ricurvo dei pellegrini e con la veste nera segnata da croci rosse, distintivo peculiare di coloro che appartenevano all’ordo poenitentium, la cui religio si esprimeva con una perfetta humilitas.
Concluso il pellegrinaggio in Galizia G. decise di recarsi a Gerusalemme, pertanto si diresse “in Apuliam” e soggiornò per qualche tempo a Melfi in casa di un certo Ruggero, forse normanno. Egli in quel momento era privo di ogni formazione letteraria e pertanto il padrone di casa per favorire il suo impegno di preghiera gli fece apprendere a memoria il Salmo 109 (Dixit Dominus Domino meo). Allontanatosi da Melfi, raggiunse Atella, ove visse per due anni sulle proprietà del miles Pietro, conducendo vita eremitica sul monte Serico. Ivi, secondo la Legenda, avrebbe compiuto il suo primo miracolo, guarendo un cieco. La fama provocata dal prodigio lo convinse ad abbandonare la località e a riprendere il suo antico sogno di raggiungere Gerusalemme. Arrivato a Ginosa, G. incontrò Giovanni da Matera e fu ospitato nella sua comunità di S. Pietro, da poco istituita; Giovanni gli consigliò di abbandonare il sogno del pellegrinaggio ai luoghi santi per rendersi utile alla salvezza dei fedeli del Mezzogiorno d’Italia. Ma G. decise ugualmente di recarsi in Terrasanta; tuttavia, giunto a Oria, fu assalito da malviventi.
Il fatto va collocato prima del 1130, anno in cui Ruggero II divenne re di Sicilia: infatti la Legenda dice espressamente che l’episodio poté avvenire in quanto il conte di Sicilia non aveva ancora acquisito il potere regio e quindi le strade non erano sicure. Anzi, il testo della Legenda, proprio nell’inciso relativo al sovrano, indicato come “aequitatis amator, malorum omnium exterminator”, dimostra che l’autore conobbe le pagine di encomio scritte da Alessandro di Telese per Ruggero II. Questa parte della Legenda dovrebbe essere stata scritta quindi tra il 1150 e il 1178, dopo la diffusione dell’opera dell’abate telesino, ma prima della stesura della Cronaca di Romualdo Guarna (Romualdo Salernitano), che attribuisce invece gli interventi contro il banditismo al re Guglielmo II.
FONTE : © Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani
https://www.treccani.it/enciclopedia/guglielmo-da-vercelli-santo_%28Dizionario-Biografico%29/
Roberto d'Altavilla detto il Giuscardo duca di Puglia di Calabria e Sicilia
Roberto d’Altavilla, detto il Guiscardo (in francese antico Guischart, “Volpe, Astuto”) e Terror Mundi (“Terrore del Mondo”)[1] (Hauteville-la-Guichard, 1015 circa – Cefalonia, 17 luglio 1085), è stato un condottiero normanno.
Sesto figlio di Tancredi (conte di Hauteville-la-Guichard) e primo della sua seconda moglie Fresenda (o Fressenda, figlia di Riccardo I di Normandia, detto Riccardo Senza Paura), divenne Conte di Puglia e Calabria alla morte del fratello Umfredo (1057). In seguito, nel 1059, fu investito da papa Niccolò II del titolo di Duca di Puglia e Calabria e Signore di Sicilia.
ROBERTO d’Altavilla, detto il Guiscardo, duca di Puglia, di Calabria e di Sicilia. – Primo dei figli di Tancredi, signore di Hauteville (Normandia occidentale) e della sua seconda moglie, Fressenda, nacque probabilmente nel 1015. Nulla si sa del periodo trascorso in Normandia, né della data della sua venuta nell’Italia meridionale (al più presto, fine degli anni Quaranta dell’XI secolo).
La prima, faticosa fase della sua carriera nel Sud è nota solo a grandi linee. Roberto passò un breve periodo al servizio del principe di Capua Pandolfo IV (o V?), con il quale ruppe per un disaccordo relativo al suo compenso.
Probabilmente nello stesso periodo sposò Alberada, zia (evidentemente di giovane età) del normanno Gerardo, divenuto conte di Buonalbergo probabilmente all’inizio degli anni Cinquanta.
Gerardo, che di Roberto rimase fedelissimo alleato per tutta la vita, è in Amato di Montecassino (Storia de’ Normanni…, a cura di V. De Bartholomaeis, 1935, III, 11) il primo a rivolgersi a lui con il soprannome di Guiscardo, «l’Astuto». Al contrario, Roberto non fu particolarmente aiutato dal fratello Drogone, figlio di Tancredi e della sua prima moglie, Muriella. Drogone lo aveva preceduto nell’Italia meridionale e aveva già guadagnato una posizione di preminenza tra le bande normanne attive in Puglia, ereditata dal maggiore dei fratelli Altavilla, Guglielmo.
Roberto fu insediato nella Calabria settentrionale, probabilmente non a caso lontano dal principale teatro di azione del fratello; era alla testa di un manipolo di cavalieri che facevano base presso la rocca di Scribla. In questo difficile e non breve periodo calabrese – da collocare prima della battaglia di Civitate (1053) secondo Amato di Montecassino, e dopo di essa secondo Goffredo Malaterra – l’attività del Guiscardo ebbe un carattere spiccatamente predatorio: sequestri di persona a scopo di riscatto e furto di bestiame furono attività frequenti del gruppo, povero di risorse ed evidentemente non ancora capace di esercitare un dominio strutturato sull’area circostante. La cattura di un notabile del posto, Pietro di Bisignano, e la successiva alleanza con lui segnarono però un primo legame del Guiscardo con le società locali.
Secondo i citati cronisti, a Civitate Roberto avrebbe ricoperto un ruolo importante, comandando un’ala delle truppe normanne nello scontro con il papa Leone IX. Ma la battaglia non fu probabilmente uno snodo significativo nella vicenda di Roberto: negli anni successivi, infatti, egli espanse la sua area di azione in Calabria, ma senza cambiare radicalmente la qualità della sua presenza. È vero che dal 1056 in effetti non solo Bisignano, ma anche Martirano e Cosenza (molto più a Sud) gli versavano tributo e gli davano aiuti militari, ma ciò non esprimeva un potere strutturato in forma stabile, di un vero e proprio controllo signorile, bensì una pressione esercitata su quei centri dall’esterno.
Il vero salto di qualità nella carriera del Guiscardo avvenne nei primi mesi del 1057. Egli ereditò il ruolo e il titolo comitale dal defunto fratello Umfredo, succeduto a Drogone a capo dei Normanni di Puglia, senza tener conto dei diritti di Abelardo, figlio minore di Umfredo, poi suo avversario tenace. Roberto si trovò così, subito dopo, proiettato in uno scenario assai ampio, e assunse un rilievo cruciale nelle vicende complessive dei Normanni, anche se la dorsale appenninica tra Calabria e Lucania – in specie, Melfi e Venosa – rimase per diversi anni l’area di sua più forte presenza, come già per Drogone, Umfredo e il loro clan. Assumendo l’egemonia sul gruppo, il Guiscardo tuttavia ridefinì la prospettiva, probabilmente con consapevole calcolo politico, dedicandosi più alla conquista della Calabria che all’area pugliese, popolata da un numero maggiore di capi e con ogni probabilità più difficile da controllare.
In effetti, anche negli anni successivi la Puglia fu teatro di una conquista non del tutto scoordinata, ma condotta su un piano ancora sostanzialmente paritario dal gruppo raccoltosi attorno ai primi Altavilla, insofferente dell’egemonia nuova che il duca tendeva a imporre. Non a caso la regione adriatica fu anche lo scenario di tutte le maggiori rivolte nei confronti del Guiscardo, fino ai suoi ultimi anni.
Con le nuove risorse a sua disposizione, fra la primavera e l’estate del 1057 Roberto intraprese dunque una campagna di conquista della Calabria meridionale, prendendo subito Squillace, Nicastro e Maida. Nei primi mesi del 1058 ebbe il primo contrasto con Ruggero, il fratello minore, futuro conte di Sicilia, che avendolo affiancato nell’impresa calabrese pretendeva un compenso; e ottenne la metà della Calabria ancora da assoggettare, con Mileto come base. In un paio d’anni la conquista della regione fu completata; tra la fine del 1059 (più probabilmente) e i primi mesi del 1060 Reggio fu conquistata e Roberto vi fu acclamato duca dalle truppe.
Nel frattempo Roberto aveva avviato le trattative che lo portarono (seconda metà del 1058) a ripudiare la prima moglie, Alberada, in favore di Sichelgaita, sorella di Gisulfo II, principe di Salerno. Fu una tappa importante della sua piena legittimazione politica. Una seconda, decisiva in prospettiva non solo per lui, ma per tutti i normanni, seguì di lì a pochissimo. Durante il Concilio indetto nell’agosto del 1059 a Melfi, nel cuore del potere degli Altavilla, Roberto giurò fedeltà a papa Niccolò II che lo investì del ducato di Puglia, di Calabria e di Sicilia, quest’ultima ancora da conquistare, così come pure, probabilmente, investì principe di Capua Riccardo di Aversa.
Rimasero esclusi dall’orizzonte della conquista i principati longobardi. Il duca si impegnò da parte sua a proteggere militarmente il papa, a corrispondergli annualmente un tributo, a porre sotto la potestà papale tutte le chiese che avesse conquistato, a garantire le procedure per la regolare elezione del pontefice. Il titolo ducale, che già altri avevano portato nei decenni 1040-50 in Italia meridionale (Melo, Argiro, Guaimario IV, lo stesso Guiscardo, già prima di Melfi), diveniva ora il segno di una compiuta legittimazione di fronte agli altri capi normanni e all’interno del panorama politico complessivo dell’Italia meridionale.
L’investitura papale diede al Guiscardo un prestigio nuovo di fronte ai normanni, consentendogli ora di rendere esplicito il disegno di un dominio esteso a buona parte del Mezzogiorno. Questo salto di qualità non ebbe forse immediata risonanza tra i contemporanei: i due principali cronisti, Amato e Malaterra, accennano appena al giuramento di Melfi. La conquista restava d’altronde un orizzonte, e lo sforzo militare necessario per compierla comportava ripercussioni all’interno della stessa compagine normanna.
Fonte: © Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani –
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Federico II di Svevia imperatore , re di Sicilia e Gerusalemme. re dei Romani
Nacque il 26dic. 1194, due giorni dopo che il padre, l’imperatore Enrico VI di Svevia, era stato incoronato a Palermo re di Sicilia, a Jesi nelle Marche (provincia di Ancona), dove la madre, la quarantenne imperatrice Costanza, figlia postuma di Ruggero Il di Sicilia, si era fermata quando il marito aveva intrapreso la sua seconda, vittoriosa, spedizione per la conquista dei Regno. Il fanciullo riunì nella sua persona l’eredità di due dinastie che solo nell’XI secolo erano salite al vertice della nobiltà europea: gli Svevi, ai quali il legame matrimoniale con la casa imperiale salica aveva aperto la via all’Impero, e il casato normanno degli Altavilla, i quali nel 1130 avevano fondato in Italia meridionale la più giovane monarchia del continente. Grazie ai nonni, l’imperatore Federico I Barbarossa e il re di Sicilia Ruggero II, F. poteva vantare legami di parentela con famiglie principesche e nobili di tutta Europa.
Che Costanza pensasse di chiamare Costantino l’erede del trono di Sicilia e del Sacro Romano Impero è tramandato solo da fonti posteriori. La scelta del nome, come è testimoniata nel 1195, si orientò in realtà verso quelli dei nonni, Federico e Ruggero, e alla fine prevalse quello del nonno paterno. Quando Costanza, nella primavera 1195, partì verso Bari e Palermo per assumere la reggenza del Regno dopo la partenza di Enrico VI, affidò il figlio alla cura della duchessa di Spoleto, consorte del duca tedesco Corrado di Urslingen, residente a Foligno. La duchessa, la cui famiglia d’origine ci è ignota, allevò F. e nel 1196 predispose anche il suo battesimo, che, contrariamente ai desideri di Enrico VI, il quale avrebbe voluto che fosse celebrato dal papa, ebbe luogo ad Assisi (Schaller).
La nascita dell’erede della dinastia spinse Enrico VI a nuove iniziative per consolidare le sorti del suo vasto dominio. Il progetto di trasformare l’Impero in una monarchia ereditaria doveva assimilare la successione imperiale a quella sul trono di Sicilia, ma il piano fallì per l’opposizione dei principi tedeschi e del papa Celestino III. I primi tuttavia nel dicembre 1196 elessero F., che si trovava sempre in Italia, re di Germania. Enrico VI a questo punto, dopo aver regolato il problema della successione, avrebbe dovuto essere in grado di intraprendere la prevista crociata, ma nel settembre 1197 morì a Messina, dove aveva sedato una nuova pericolosa rivolta. Il sistema della successione che era riuscito a costruire non riuscì comunque a scongiurare lo scoppio delle tensioni prodotte dalla sua instancabile politica condotta su vari fronti.
Mentre il fratello di Enrico VI, il duca Filippo di Tuscia, che avrebbe dovuto condurre l’erede al trono F. da Foligno in Germania, alla notizia della morte di Enrico VI rientrò anticipatamente, i conti Pietro da Celano e Berardo da Loreto, su ordine dell’imperatrice Costanza, poche settimane dopo portarono F. nel Regno. Già nel dicembre 1197 F. si trovava a Messina. Con il consenso del nuovo papa Innocenzo III, Costanza il 17 maggio 1198 fece incoronare il figlio re di Sicilia. Il fatto che dopo questa investitura il titolo di re dei Romani, fino ad allora attribuito a F., non e più riportato nei documenti prova che Costanza non rivendicò più i diritti che spettavano al figlio in base all’elezione del 1196: il suo obiettivo politico era unicamente quello della successione in Sicilia. Nelle trattative con Innocenzo III accettò le condizioni in materia di politica ecclesiastica imposte dal papa per l’infeudazione sua e del figlio. I documenti erano già stati redatti, ma non ancora consegnati, quando il 27 nov. 1198 Costanza mori.
Fonte: © Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani –
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